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venerdì 23 settembre 2016

Appunto ecclesiologico

Esistono dei blog cattolici in cui diverse persone esprimono il loro disorientamento crescente dinnanzi a quanto a me pare essere un'alterazione dei pilastri stessi della dottrina cristiana. Quest'alterazione essi la intravvedono nelle parole di non poco clero fino a riconoscerla perfino negli atti e nei discorsi del papa stesso. Qualcuno, allora, suggerisce quanto segue:
«Che ci sia il papa x o il papa y poco importa, l'importante che la mentalità, il senso comune ritorni cattolico».

Ottimo appunto ma mi pare quasi fuori luogo. Questo perché, per avere senso, si dovrebbe essere in un contesto ecclesiastico in cui la Tradizione (intesa in tutti i sensi ma, soprattutto, nel senso del "modo" in cui si vive la fede cristiana) sia concepita al di sopra dell'autorità personale del papa stesso. 
Ebbene, questo da troppo tempo nel nostro caso non è più così poiché è la persona del papa stesso (x o y che sia) a determinare il sentire cum ecclesia fino al punto che pure il cosiddetto magistero ordinario non dev'essere confrontato e riconosciuto cattolico o meno (come si avrebbe fatto anticamente in modo diffuso e sistematico) ma semplicemente accettato con ossequio.

Mi si dirà che è il sensus fidei dei fedeli che, dinnanzi alle situazioni più controverse, dovrebbe regolare le persone, la mentalità cattolica, come si dice nel consiglio citato.

In realtà, osservando con molta attenzione e con scrupolosa coscienza mi pare di poter concludere che il rapporto tradizione-autorità sia uno dei più emblematici e contorti nella pratica del mondo cattolico odierno (e non solo da oggi, se si è onesti!). Infatti il "carisma" dello Spirito santo (inteso nel senso più autentico e profondo) è al di sopra delle autorità ecclesiastiche, può riguardare qualsiasi cristiano e non chiede che di essere riconosciuto dalle autorità stesse, non manipolato o alterato autoritativamente! In realtà, sempre più, nel nostro contesto questo "carisma" è equivocato, finisce per essere qualcosa di caotico e contraddittorio ("carisma" sarebbe il movimento di Kiko Arguello ma pure la sensibilità dei tradizionalisti cattolici totalmente contrari ad esso!). Ovvio che allora non è il carisma fondativo della Chiesa che l'ha sostenuta nei secoli, nonostante mille prove, poiché quel carisma era contraddistinto da armonia e comunione, non da difformità litigiosa e contrastante! Inevitabilmente si finisce, allora, per affidarsi all'autorità per se stessa. Quest'affidamento sancisce una volta per tutte la priorità del diritto canonico sulla spiritualità, ridotta troppo spesso ad un fantasma in cui si esprimono unicamente istanze sociologiche o psicologiche. Ed eccoci in pieno antropocentrismo ecclesiale!
 

Se è vero che l'autorità, a sua volta, cerca di conformarsi ad una generica tradizione per rivendicare la sua autenticità, è pur vero che è  l'autorità nel cattolicesimo a fare la tradizione. E questo da secoli.

Non a caso Giovanni XXIII osò dire che "la novità di oggi (promossa dall'autorità ecclesiastica) sarà la tradizione di domani". Non lo disse tanto nei riguardi di una novità carismatica riconosciuta come opera dello Spirito nel corpo ecclesiale, quanto come una novità pensata e imposta dall'alto, dall'autorità stessa. E lo disse a quanti, ancora, gli ricordavano che l'autorità deve conformarsi alla tradizione ...

Se allora era così figuriamoci oggi, in cui è in espansione un vero e proprio culto della personalità, in cui una cosa finisce per essere "buona" solo e unicamente perché promossa dall'alto.

In definitiva: il consiglio sopra citato è ottimo ma mi sembra che, in un contesto in cui tutto è stato rovesciato, viene reso all'atto pratico totalmente impotente ...


Al contrario, in Oriente, la Chiesa a livello monastico e popolare resiste dinnanzi ai reiterati tentativi di autoritarismo da parte di qualche patriarca. Lì esiste ancora la possibilità di confrontare se l'autorità è conforme o meno alla tradizione, finanto che pressioni esterne alla Chiesa, servendosi di chierici influenti, non rovescino le cose, iniziando dapprima a combattere il monachesimo depositario della memoria storica, della spiritualità e della tradizione antica (storia che è accaduta già in Occidente diversi secoli fa) ... 

martedì 9 agosto 2016

Simbolo e allegoria...

Ho da un po' di tempo un libro che mi fu prestato da un sacerdote cattolico, ora canonico confessore di una Cattedrale, sulla divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo. Questo sacerdote è sempre stato un grande estimatore del mondo ortodosso e, mi ricordo, mi presentò questo libbricino come se fosse un gran tesoro. In realtà il libro non è gran che ed è per certi versi pure criticabile, poiché è stato fatto in modo molto sommario. Tuttavia non è del libro che voglio parlare ma di questo prete. Costui ha studiato con scrupolo ogni pagina della pubblicazione, sottolineando alcune frasi che riteneva significative. Non è una persona sguarnita intellettualmente poiché ha alle spalle un dottorato universitario il che rende più pesante ogni suo eventuale errore.
Alcune volte egli ha riportato piccoli appunti sul bordo. Uno di questi ha attratto la mia attenzione. Mentre il testo recita: “L'elevazione del santo pane simboleggia, per san Giovanni Damasceno, l'elevazione del Signore in croce”, il “pio” prete scrive a matita: “allegorismo”.

Una semplice parolina, quasi insignificante, si direbbe.
Eppure tale parolina ha attirato la mia attenzione perché il medesimo “pio prete” che si crede tanto ma tanto vicino all'Ortodossia l'ha scritta più e più volte.
A questo punto ho voluto vederci chiaro.

Cos'è un'allegoria?
L'allegoria è una figura retorica con la quale si sottintende qualcosa, partendo da un determinato contesto. Quanto si sottintende è un'idea astratta. Ad esempio, la lonza, il leone e la lupa, citati nella Divina Commedia di Dante Alighieri, rappresentano la lussuria, la superbia e l'avidità.
L'allegorismo è un uso abbondante dell'allegoria.

Cos'è un simbolo?
Il simbolo si riferisce a qualcosa di reale e concreto che soggiace dietro l'apparenza di una realtà. Per i santi Padri, la liturgia è simbolo della realtà celeste, non è una semplice “idea astratta”, poiché la realtà celeste si manifesta realmente, anche se misteriosamente, dietro le parole e i gesti della Liturgia.



Questo è così vero che san Nicola Cabasilas ha una visione molto realistica della Liturgia, non ne fa un gioco intellettuale, poiché per lui come per tutti i Padri, essa è un luogo di trasformazione spirituale attraverso i simboli presenti che agiscono attivamente.

Se si leggerà qualsiasi altro scritto patristico si troverà lo stesso realismo che nulla ha da spartire con l'intellettualismo o l'astrattismo.


Ora i lettori si chiederanno con me: «Che cavolo ha capito questo “pio” prete che si pensa tanto ma tanto vicino al mondo ortodosso?» Nulla, evidentemente, poiché ridurre ad allegoria quanto per i padri è simbolo, significa rendere la stessa Messa, che lui celebrerà, a semplice giochino di parole e di idee. E se questo “pio” sacerdote è uno dei meglio disposti, verso le antiche liturgie e verso l'Oriente cristiano, proviamo ad immaginarci cosa saranno gli altri, privi della sua cultura e della sua disposizione d'animo! Non è che, dietro la parola “allegorismo” questa gente coltivi, senza averne profonda coscienza, una vera e propria miscredenza? È il mio forte sospetto, dal momento che usare il termine "allegorismo", nonostante nel testo si parli chiaramente di "simbologia", significa ridurre il realismo della fede a mera idea!! La liturgia, per questo prete è una raccolta di idee, ossia è un allegorismo, che ne abbia piena coscienza o no.

Purtroppo oramai gran parte del mondo cattolico è nello sbando totale ed è bene stare molto ma molto attenti da esso poiché, come abbiamo visto, con una sola parolina è in grado di smontare totalmente l'impianto di vigorosa fede che un tempo antico la Chiesa aveva ....

lunedì 20 giugno 2016

A cosa serve la Chiesa


Ho pensato di scrivere il seguente breve racconto per illustrare a persone disorientate, nella maniera più semplice possibile, a cosa serve la Chiesa.

C'era una volta un bravo alpinista che, nella sua gioventù ebbe molte esperienze di sentieri e di scalate montane. Un bel giorno questo alpinista si sposò ed ebbe dei pargoletti. La famigliola venne ad abitare in riva al mare, quindi assai lontano dalla montagna.
I pargoli crebbero, sentendo parlare il papà della montagna ma, tranne qualche foto, non seppero realmente cosa essa fosse né si diedero animo di volerlo sapere. In fondo il mare, con i suoi divertimenti, era per loro un gran piacere.
Ma il papà, che ben conosceva gli ambienti alpini e come questi elevano lo spirito, aveva il desiderio di mostrare ai propri figli almeno qualcosa di quanto vide in gioventù.
Così, un giorno, li portò in un negozio di prodotti sportivi, al reparto montagna. “A cosa servono questi?”, disse uno dei bimbi. “Sono scarponi chiodati – rispose il papà – e servono per camminare sul ghiaccio, evitando di scivolare sui sentieri”. “E quest'altra?”, aggiunse il secondo bimbo. “Questa è una giacca termica e si deve indossare quando si è in alta montagna altrimenti muori dal freddo”.
Il papà, più deciso che mai ad aprire i suoi pargoli a nuove esperienze, comprò loro quanto necessario per portarli almeno nel più basso rifugio alpino.
I bambini, però, per quanto non più troppo piccoli, non se la sentirono molto di abbandonare il mare, la spiaggia e il pallone caro compagno di tanti giochi. Il papà cercò di confortarli dicendo loro che solo se si fossero distaccati da tutto ciò avrebbero potuto iniziare ad aprire gli occhi su cose più belle. “Il pallone non è certo una brutta cosa, – disse loro – ma se pensate sempre al gioco del calcio, quando siamo in cammino verso la montagna, non gusterete il paesaggio, rimarrete sempre con la testa indietro!”.
E fu così che arrivò il giorno in cui papà e bimbi decisero di recarsi ai monti. L'auto abbandonò dapprima la pianura, con la sua monotona serie di paesi e case un po' tutte uguali, poi si avvicinò ai primi colli. “Che belli!, Sono la montagna?” disse uno dei bimbi. “No, affatto”, disse loro il papà. “I colli sono certamente differenti dal mare, hanno un rilievo elevato, una ricca vegetazione; il paesaggio con i colli è molto più grazioso rispetto alla pianura ma... non è affatto la montagna dalla quale si ha un paesaggio formidabile”. I bimbi lo ascoltavano a bocca aperta. Non avevano mai, prima di allora, visto i monti e iniziavano ad averne un desiderio sempre maggiore viste le premesse. “Come per il mare, non dovete ancorare il vostro pensiero ai colli, altrimenti la vostra testa non sarà libera di godervi la solennità delle montagne, i suoi aspri sentieri, i suoi paesaggi mozza fiato”.
Giunti ai primi monti, il papà invitò i figli a mettere gli abiti più pesanti comperati in negozio. Iniziarono a vedersi neve e ghiaccio. Scesi dall'auto, i figli compresero perché dovevano mettersi gli scarponi che, per quanto un po' stretti, almeno li custodivano da possibili cadute.
Ci volle diversa fatica per arrivare, sempre a piedi, al più basso rifugio che il padre voleva far loro vedere ma solo da lì essi capirono, finalmente, quello che il padre diceva loro quando raccontava, nelle lunghe notti invernali, le sue sensazioni e le sue meraviglie dinnanzi al paesaggio solenne e indicibile.

Questo racconto è molto semplice, come si vede, ma ha tutti gli elementi per poter farci capire a cosa serve la Chiesa. Uscendo dalla metafora lo si può spiegare così.

La casa al mare è la nostra vita sensoriale, riguarda i nostri cinque sensi. La vita sensoriale non è un male in sé perché ci permette di vivere nel mondo e di relazionarci con esso ma se diviene una trappola (e per molti lo è basta pensare a quelli che vivono per il piacere della gola o per altri generi di piaceri), non ci permette di andare oltre. Saremo come dei bambini che sognano continuamente il gioco al pallone sulla spiaggia, come dei fiori che, invece di farsi baciare dal sole, sono reclinati a terra. Ecco perché la Chiesa ricorda(va) di vivere i comandamenti e di staccarsi pian piano dalle passioni.

Le colline sono la nostra vita intellettuale o razionale. Anche questa non è un male in sé perché grazie alla razionalità abbiamo contribuito a costruire il nostro attuale benessere e a sviluppare le scienze. Ma se diviene una trappola (e per molti lo può divenire, basta pensare a chi si astrae totalmente dalla vita concreta o non concepisce nulla se non in modo puramente razionale) ci fa credere che la razionalità è la forma più elevata di vita umana.
Per chi è chiuso nella sola razionalità Dio è una contraddizione al pensiero, dunque non esiste. La razionalità, se sopravvalutata, diventa come una camera a specchi dove, sulla superficie di ciascun specchio, si riflette la nostra sola immagine. Ecco il razionalismo! Anche nella Chiesa ci può essere il razionalismo quando tutto inizia e finisce in se stessi, quando si fa della struttura ecclesiastica un idolo.

Le montagne sono la nostra vita spirituale. Fintanto che non c'è qualcuno che ce le fa toccare con mano, possono esserci totalmente indifferenti. Ci vuole, dunque, un “buon papà” che ne ha avuto esperienza, che conosce gli strumenti per poterle affrontare, che ci incoraggia nella fatica del cammino e, solo dopo, potremo con lui godere di quanto lui stesso aveva precedentemente goduto.

Normalmente Dio non si rivela alle persone se non dopo che costoro si sono preparate (e non ci si prepara mai da soli), dopo che le persone hanno assunto scelte adeguate (scarponi e giacche termiche sono, fuor di metafora, i sacramenti e la prassi ascetica). Contrariamente a ciò non si è in grado di affrontare la montagna, ossia la salita verso Dio e si ricade nel razionalismo. Una religiosità formale o intellettualizzata è, oggi, facilmente rinvenibile nelle Chiese.

Ed eccoci alla domanda finale: a cosa serve la Chiesa?

Serve a rimanere “al mare”, ossia a titillare le nostre facoltà sensoriali (con religiosità dolcificate, sensuali e “buoni sentimenti”)? No, affatto! Ecco perché la vera arte sacra non è e non sarà MAI sensuale! Chi rappresenta immagini sensuali di santi ci mostra chiaramente il suo livello, tutt'altro che spirituale, e ci suggerisce di rimanere in quello in modo cosciente o incosciente.

Serve a rimanere “in collina”, ossia a titillare le nostre facoltà intellettuali (scrivendo libri su libri sempre più teorici ed astratti)? Niente affatto! Ecco perché la vera arte sacra non è e non sarà mai assenza di immagini. Chi spoglia le chiese da ogni immagine ha un concetto astratto di uomo, non reale!

Serve a portare “in montagna”, ossia a preparare le persone ad un incontro con Dio, sperimentato nella propria interiorità? Sì! Ecco perché la vera arte sacra si rappresenta con forme simboliche.

Piaceri sensoriali e intellettuali sono sempre esistiti da che l'uomo esiste. L'incontro con Dio, al contrario, è garantito solo con i mezzi della Rivelazione, all'interno della vita spirituale della Chiesa (oggi quasi totalmente introvabile).

L'inganno dei nostri tempi è quello di far credere che il senso della Chiesa è quello di sfamare e sovvenire i poveri (quando qualsiasi altra istituzione lo può ugualmente fare), che nella Chiesa si può “pensare Dio”- ecco molta teologia” odierna - quando Dio non è pensabile in senso proprio ma solo vivibile....

Così “scarponi” e “giacche termiche” che abbiamo ereditato nel passato e che chiamiamo anche “tradizione” non le capiamo più e le buttiamo in un angolo: infatti chi vive in pianura o in collina non ha bisogno né degli uni né delle altre! Oggi la cosa più patetica è che molto clero ha in profonda antipatia la tradizione manifestando, dunque, la sua profonda ignoranza su di essa e indicando che il suo cuore abita in tutt'altro luogo che nella tradizione evangelica.

Una Chiesa, qualsiasi Chiesa!, che abbia dimenticato il suo unico vero fine, quello di portare le persone ai “monti”, ha, in effetti, cessato di essere tale. 
Anche se si presenta apparentemente come sempre ma dimostra di essere esistenzialmente ignorante dei “monti”, è divenuta un'altra cosa! Ecco in breve spiegata la desacralizzazione di molti ambienti ecclesiastici e il loro penoso sradicamento dalle radici apostoliche. Il semplice diritto canonico e una formale successione apostolica episcopale non sono la garanzia della verità. La verità la si riscontra solo nella capacità, in una Chiesa, di portare ai “monti” poiché la Chiesa stessa è stata creata SOLO per quello!



lunedì 16 maggio 2016

Un testo dimenticato: la prima lettera di san Simeone il Nuovo Teologo sulla Confessione

Biografia

Abbiamo due fonti che ci forniscono gli elementi biografici della vita di san Simeone il Nuovo Teologo: i suoi scritti e la descrizione che ne fa il suo discepolo Niceta Stethatos. Simeone nasce nel 949 a Galata di Paflagonia in una famiglia piuttosto benestante della piccola nobiltà provinciale. Battezzato con il nome di Giorgio, viene ospitato da uno zio, funzionario imperiale, per compiere a Costantinopoli gli studi. Morendo lo zio, cerca di entrare, quattordicenne, nel monastero di Studìon ma non ne viene accolto a causa della minore età. Nel frattempo, conosce un monaco che diviene suo padre spirituale, Simeone il Pio, detto pure Simeone lo Studita.
Rimane nel mondo fino al 977, tentando dintraprendere la carriera politica dopodiché, sistemata la sua situazione familiare, viene ammesso nel monastero studita. Qui, assume il nome religioso di Simeone ricevendo l’abito monastico. Un anno più tardi, entra nel monastero di San Mammàs, situato presso la porta costantinopolitana di Xilokerkos. Nel 980 Simeone viene ordinato prete e, alla morte dell’igumeno Antonio, viene designato igumeno dello stesso monastero dal patriarca Nicola.
Il padre spirituale Simeone il Pio esercitò una forte influenza su Simeone, insegnandogli il gusto dell’esperienza personale di Dio. Tale influenza ebbe come frutto la purificazione della vita del discepolo e l’approfondimento della sua vita spirituale fino a giungere ad una comunione ricca, luminosa e personale con Cristo. I suoi scritti nascono dall’esperienza di Dio come luce divina, da cui l’appellativo che gli verrà attribuito di “nuovo teologo”.
Nel mezzo di un’intesa attività di rinnovamento del proprio monastero, Simeone scrive le Catechesi indirizzate ai propri monaci. La sua enorme convinzione e la sua notevole energia non gli attirarono solo ammirazione: dovette difendersi da una rivolta di trenta monaci, poi inviati in esilio dal patriarca Sisinnio. Qualche anno più tardi, deve difendersi davanti ad un processo stabilitogli dal metropolita Stefano di Nicomedia poiché, secondo il suo accusatore, Simeone nutriva un’eccessiva venerazione per il proprio padre spirituale defunto. Effettivamente, Simeone aveva istituito nel proprio monastero un’ “ufficiatura liturgica” al proprio padre spirituale, seguendo una pratica allora corrente.
A causa di tale processo e con l’accordo del patriarca Sergio, Simeone dovette dimettersi dal suo incarico d’igumeno nel 1005. Nel 1009 il santo fu condannato all’esilio. Sbarcato con qualche discepolo a Chrysopolis, sulla riva asiatica del Bosforo, pose la sua residenza a Paloykiton, presso la cappella di santa Marina. Qui, pare che scrisse solo degli inni per poi morire nel 1022. Fu canonizzato mezzo secolo dopo la morte.


La teologia di san Simeone

Il punto di partenza della teologia di Simeone è la paternità spirituale, su diretta ispirazione dello Spirito santo, tema, questo, che non mancò di stupire chi, allora, aveva una visione piuttosto istituzionale del Cristianesimo e d’impensierire quelle autorità religiose particolarmente gelose delle loro prerogative. La paternità spirituale è contro ogni autoritarismo ecclesiastico e si affida totalmente alla libertà di scelta, alla confidenza e al reciproco amore che lega il padre spirituale ai propri figli nello Spirito santo.
Osservando ciò, la critica è propensa a inquadrare san Simeone nell’ambito di quegli autori monastici in polemica con il mondo clericale. San Simeone, secondo alcuni, sarebbe il rappresentante di una Chiesa tipicamente monastica e avrebbe forgiato una visione particolare all’interno della tradizione cristiana. Simile giudizio è stato proferito per un altro autore monastico vissuto nel XIV secolo bizantino, san Gregorio Palamas. In quest’ultimo caso è stato coniato il termine di “palamismo” per qualificare idee singolari di Gregorio che, qualcuno dice, non sarebbero state condivise dalla Grande Chiesa (di Costantinopoli). Chi crea queste definizioni si appoggia su argomenti solo in parte condivisibili perché, in realtà, autori monastici come san Simeone il Nuovo Teologo, pur avendo aspetti loro peculiari, vogliono trasmettere la tradizione della Chiesa nel senso più profondo senza deviare dal suo cammino, pur con i limiti propri all’autore di ogni epoca. Se ne trae che il monachesimo antico non ha nulla di suo ma condivide quanto, nella Chiesa, è vero e autentico. Parlando di tali autori, dunque, non è corretto parlare di una “teologia monastica”, quasi per volerli isolare dal contesto ecclesiale, ma di una teologia profondamente ecclesiale, pur nelle esigenze proprie del monachesimo.

La lettera sulla confessione

La presente, è forse la prima traduzione italiana dell’epistola di san Simeone il Nuovo Teologo sulla Confessione (la prima lettera di un epistolario che ne conta quattro) (1).
In questo testo, scritto probabilmente quand’era igumeno, l’autore indica al proprio interlocutore quali siano le condizioni con le quali è possibile fare un’autentica confessione. Abbiamo una risposta eminentemente spirituale nella quale non c’è alcuna traccia di mentalità legalistica o giuridica. Simeone non contesta il ruolo del sacerdozio nel conferire i sacramenti. Se ne deduce che essi sono “validi” se amministrati in determinate condizioni, per quanto l’autore non ragioni nei termini scolastici di “validità” sacramentale. Rimane, tuttavia, un altro aspetto: quello della reale efficacia sacramentale. Perché un sacramento sia “efficace” (altro termine che san Simeone non utilizza pur sottintendendolo), è necessaria l’ottima disposizione del penitente e pure l’ottima disposizione di colui che l’amministra, aspetto quest’ultimo molto interessante e peculiare a Simeone stesso. Non basta, infatti, fare quanto intende la Chiesa (come si dirà poi) ma è necessario entrare in un’autentica dimensione spirituale. La spiritualità (e la moralità che ne deriva) non è, allora, qualcosa che si giustappone, che si può praticare o meno, un abbellimento, qualcosa che appartiene ai più bravi, qualcosa con la quale si presume di “comperare” il Paradiso e la compiacenza divina, ma è essenziale almeno quanto lo è l’ortodossia della fede per l’amministrazione efficace del sacramento della Confessione e fa con la fede una sola cosa. Fede e prassi fanno una cosa sola al punto che una non può realmente sussistere senza l’altra. Questa concezione non è isolata a Simeone nella dottrina patristica poiché pure autori come Massimo il Confessore (VII sec.), con il termine “pietà”, intendono inscindibilmente sia la dottrina, sia la pia pratica cristiana. Ed entrambi determinano, poi, l’efficacia sacramentale nel caso della Confessione.
Tutto ciò lo troviamo pure in alcuni antichi testi liturgici.
Ecco un esempio di preghiera tratto dalla Liturgia eucaristica antiochena di san Gregorio il Teologo (V-VI sec.):

Signore, Dio nostro, onnipotente, che conosci l’intelletto degli uomini e scruti i cuori e i reni; tu che hai chiamato me indegno a questa sacra liturgia, non rigettarmi e non allontanare il tuo volto da me e cancellami tutte le iniquità, lavami dalla sozzura del corpo e dall’impurità dell’anima e santificami interamente affinché, quando ti supplico di concedere la remissione degli altrui peccati, ciò non sia senza valore (2).

Non deve meravigliare, dunque, se, per san Simeone, la mancanza di un’autentica vita cristiana faccia allontanare lo Spirito dal clero mondanizzato il quale viene meno alla sua funzione, ossia non trasmette più lo spirito apostolico. In conseguenza di ciò, entra nella Chiesa una concezione formalistica e magico-religiosa. È l’ex opere operato, inteso magicamente. C’è da dedurre, con san Simeone, che una Chiesa così, per quanto apparentemente possa parere tradizionale, si è già staccata dalle sue radici apostoliche ed è totalmente incapace di convertire il mondo poiché è divenuta mondo nel mondo. San Simeone si riferisce – senza qui esplicitarla – alla cosiddetta sinergia tra l’umano e il divino: Dio fa sempre la sua parte, analogamente alla montagna che produce l’acqua per il fiume, ma se l’uomo (che celebra e che usufruisce della celebrazione sacramentale) non ha una conveniente apertura spirituale a Lui, è come il letto ostruito di un fiume; per quanto l’acqua possa esistere a monte dell’ostruzione, non potrà mai defluire e si aprirà un altro corso lontano dal primo. La regione che si nutre dell’acqua del primo corso d’acqua a valle resterà, dunque, disseccata.

Questo spiega la crisi di alcuni settori del Cristianesimo nell’epoca del santo e contribuisce senz’altro a spiegare la crisi attuale nella quale si riscontra una forte anemia spirituale. Da questo punto di vista, san Simeone non è affatto un santo relegato in un passato lontano e diviene assai eloquente anche oggi, al punto che certi passi della sua prima lettera paiono descrivere qualche avvenimento della nostra epoca come quelli che potrebbero succedere in una qualsiasi altra che abbia staccato il proprio cuore dai fondamenti del Cristianesimo.

Il testo greco di questa lettera è tratto dalla Patrologia graeca (PG) ma, per ragioni di tempo, non è stato perfettamente revisionato. La traduzione, in alcuni tratti, segue il senso del testo, piuttosto che essere letterale. Si spera, in un prossimo futuro, di poter riprendere tutte le quattro lettere e farne una traduzione rigorosa.

                                                                                                                                

(1) Da una rapida ricerca, risulta che neppure in lingua francese esiste una traduzione delle Lettere di Simeone. In inglese, al contrario, ne esiste una piuttosto recente: H. J. M. Turner, The Epistles of St Symeon the New Theologian (Oxford Early Christian Texts), Oxford University Press, 2009.

(2) Si può comprendere come, nell’Occidente cristiano, questi testi possano in qualche modo parere strani, dal momento che ci si muove, coscientemente o meno, con una forte influenza agostiniana e Agostino, si sa, era marcatamente antidonatista. Tuttavia, se si osservano seriamente le argomentazioni della tradizione teologica e liturgica bizantina qui accennate, non si può non offrire loro un'attenta considerazione.

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Per leggere il testo di san Simeone cliccare sulle pagine sottostanti. È pure possibile ingrandire la pagina spostando il cursore sul segno + o con la rotellina del mouse.

Per chi ha difficoltà a farlo, ho incollato solo il testo italiano nello spazio sottostante.


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TESTO ITALIANO



1. Hai chiesto alla nostra inutilità di dirti, padre e fratello, “se è corretto confessare i nostri peccati ai monaci che non hanno gli ordini sacri”, aggiungendo anche questo: “perché abbiamo sentito che il potere di legare o sciogliere è stato dato solo ai sacerdoti”. Queste, poi, sono parole e indagini a beneficio della tua anima amica di Dio e del suo ardente desiderio e timore. Abbiamo riconosciuto la tua buona disposizione poiché cerchi di conoscere le cose divine e sacre, ma abbiamo voluto rimanere in silenzio perché non siamo all’altezza di alcuni in grado di distinguere tra queste cose e scrivere su di loro. Il lavoro di “interpretare le cose spirituali alle persone spirituali” (1 Cor 2, 13) appartiene a coloro che sono liberi dalle passioni e sono santi uomini, da cui siamo molto lontani per quanto riguarda la nostra vita, le parole e le virtù.

2. Tuttavia, sta scritto, “Il Signore è vicino a quelli che lo invocano, a quanti lo invocano in verità” (Sl 144, 18). E poiché io, indegno, l’ho domandato a Lui in verità, dirò le seguenti cose, non per mio valore, ma per quello della divina Scrittura divinamente ispirata. Quindi, piuttosto che insegnare, mi limiterò a portarti la testimonianza della Scrittura, leggendoti le cose che mi sono state richieste. Infatti, con la grazia di Dio, devo custodire me stesso come coloro che mi ascoltano da entrambi i precipizi, ossia, dal precipizio di seppellire il talento (Mt 25, 18-24), e dal precipizio d’insegnare le dottrine divine indegnamente nella vanagloria, o meglio, nelle tenebre.
Pertanto, dove dovremmo cominciare il nostro commento, se non dalla causa, dall’inizio stesso di tutte le cose? Così è meglio, in modo da essere certi di ciò che sarà detto, poiché non siamo stati creati né da angeli né da uomini, ma dalla sapienza dell’alto, cioè misticamente, dall’impronta dello Spirito santo. E poiché siamo sempre stati istruiti, in ogni ora, ed abbiamo invocato la grazia, ora parleremo prima del modo in cui si fa la confessione e poi del suo potere.

3. La confessione non è altro che l’ammissione dei nostri debiti e, di conseguenza, la profonda consapevolezza delle nostre cadute, ossia un disprezzo della nostra povertà e stoltezza. Il Signore parlava in parabole nei Vangeli di “... due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. E quando non avevano nulla con cui ripagare, li perdonò entrambi” (Lc 7, 41-42). Quindi ogni fedele è un debitore davanti al suo Maestro e Dio. Tutto ciò che ognuno ha ricevuto da Lui, lo stesso gli sarà richiesto nel pauroso e terribile tribunale, quando tutti noi, sia re sia poveri, vi compariremo nudi e smascherati. Ascoltate ora cosa e quanto abbiamo ricevuto da Lui. Naturalmente, esistono molte altre cose delle quali nessuno è in grado di farne l’enumerazione. Ma al momento presente, la migliore e più completa è la liberazione dalla condanna, la santificazione dalla lordura, l’a-vanzamento della sua ineffabile luce dalle tenebre, la possibilità di divenire suoi seguaci, figli ed eredi attraverso il divino battesimo e di essere vestiti di Dio stesso, per divenire sue membra e ricevere la presenza dello Spirito santo in noi, che è un sigillo reale utilizzato dal Signore per contrassegnare le sue pecore. Ma cosa sto descrivendo con il “tante cose”? Semplicemente questo: che Egli ci rende come se stesso e ci abilita a essere suoi confratelli e coeredi. A coloro che sono stati battezzati, sono date tutte queste cose direttamente dal battesimo, definite dal divino Apostolo come “divine ricchezze ed eredità” (Col 1, 12; Ef 3, 8; 2 Cor 4, 7).

4. I comandamenti del Sovrano sono stati dati come custodia di queste grazie e doni ineffabili e circondano tutto il credente come un muro, creandogli un porto sicuro per il tesoro nascosto nella sua anima. [I comandamenti] lo sostengono e lo rendono inaccessibile a tutti i nemici e i ladri. Perciò, crediamo di poter custodire i comandamenti di un Dio amico dell’uomo, pur essendo piuttosto consapevoli del fatto che, provati, siamo custoditi da loro. Colui che osserva i comandamenti di Dio non sostiene e protegge loro quanto se stesso dai nemici visibili e invisibili, dei quali, innumerevoli e paurosi, l’Apostolo Paolo parla dicendo: “La nostra battaglia non è contro sangue e carne, ma contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro gli spiriti del male che abitano nei luoghi alti” (Ef 6,12), in altre parole, coloro che si trovano nell’aria e sono sempre invisibilmente schierati contro di noi.

Pertanto, colui che osserva i comandamenti stessi è da loro protetto e non può perdere le ricchezze che Dio gli ha affidato. Ma colui che disprezza i comandamenti si espone nudo ai nemici ed è facilmente sconfitto da loro. E, dopo aver perso tutte queste ricchezze, egli è in debito con il Re e Sovrano per tutte le cose di cui abbiamo parlato, impossibili per l’uomo da ritornare o addirittura da trovare. Per questo [tali cose] sono celesti ed Egli è venuto dal cielo. Così, Egli viene ogni giorno, le porta e le distribuisce ai fedeli. Coloro che una volta le ebbero ricevute per poi perderle, dove potrebbero trovarle nuovamente? Veramente da nessuna parte! Proprio come né Adamo, né alcuno dei suoi figli, è stato in grado di restaurare se stesso o rifare i suoi, sarebbe stato impossibile non essendo Dio sopra ogni essere, divenire figlio di Adamo secondo la carne, nostro Signore Gesù Cristo, per innalzare lui e noi dalla nostra caduta con la sua potenza divina. Per quanto riguarda i comandamenti, chi sceglie di mantenere alcuni tra loro e abbandonarne altri, dev’essere consapevole del fatto che se si trascura di mantenere anche uno dei comandamenti, si perderanno tutte le ricchezze. Immagina che i comandamenti siano come dodici uomini armati che ti circondano tutto attorno, mentre tu stai nudo in piedi in mezzo a loro che stanno di guardia. Immagina anche altri guerrieri, tuoi avversari, che vengono e ti circondano cercando di afferrarti per ucciderti subito. Pertanto, se uno dei dodici è tolto dalla tua scelta e trascura di proteggerti lasciando il suo posto come una porta aperta al nemico, che beneficio possono dare i rimanenti undici uomini se anche uno solo dei nemici è in grado di entrare verso il centro e, senza pietà, ti taglia a pezzi, mentre gli altri undici non possono più circondarti per aiutarti? Infatti, anche se hanno scelto di circondarti per aiutarti, pure loro saranno uccisi dal nemico. Quindi la stessa cosa ti accadrà se non osservi i comandamenti. Perché in caso di caduta per un solo colpo del tuo nemico, tutti i comandamenti si lasciano e, poco a poco, la tua forza viene meno. O, per dirla in un altro modo, un vaso pieno di vino o di olio non ha bisogno di essere forato attorno per perdere tutto il suo contenuto. Un singolo foro aperto in un posto è sufficiente perché quanto è all’interno sia lentamente perso. Allo stesso modo, se si trascura un solo comandamento, si cade lentamente lontano da tutti gli altri, come Cristo disse: “Poiché chiunque ha sarà dato, ed egli sarà nell’abbondanza. Ma a chi non ha sarà tolto quello che ha” (Mt 25, 29). E ancora: “Chiunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti”, e per la sua trasgressione, “colui che insegna agli uomini a fare altrettanto sarà chiamato minimo nel regno dei cieli” (Mt 5, 19). E Paolo disse: “Ciascuno è, infatti, schiavo di colui che lo vince” [Questo passo fa parte di 2 Pt 2, 19]. E ancora: “Il pungiglione della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge” (1 Cor 15, 56). Da nessuna parte ha detto questo o quel peccato specifico, ma che ogni peccato è il pungiglione della morte. Si chiama peccato il pungiglione della morte perché chi ne viene punto muore. Per cui ogni peccato è per la morte, perché anche se qualcuno ha peccato, fosse una sola volta, Paolo dice che è già morto, essendo sotto accusa per il debito e il peccato, lasciato disteso sulla strada dai ladri.

5. Cosa, allora, fa risollevare un morto causato da qualcuno? E che fa colui che non è in grado di pagare il suo debito e ricevere la remissione di tale debito evitando di essere gettato in carcere fino a che non può rimborsare, cosa che non potrà mai fare dal momento che non ha nulla con cui pagare il suo debito e, quindi, non potrà mai uscire dall’eterna prigione, cioè dall’oscurità eterna? Colui che è stato ferito dai ladri spirituali chiede che un medico compassionevole e misericordioso venga a lui. Egli non ha in sé il timore di Dio, ossia non è abbastanza fervente da essere in grado di andare da un medico in quanto la sua anima è debole per la trascuratezza, e sta lì offrendo un terribile e infelice spettacolo a coloro che sono in grado di vedere bene, vale a dire, a chi è in grado di vedere spiritualmente le cadute dell’anima. Così, attraverso il peccato, si diviene schiavi del diavolo: “Non sapete che se vi fate schiavi di qualcuno obbedendogli, siete schiavi di quello cui obbedite, sia del peccato per la morte, sia dell’obbedienza per la giustizia?” (Rm 6, 16), ed è una presa in giro del Padre e di Dio, il disprezzo dei nemici che apostatano da Dio.
Così uno diviene spoglio della porpora reale ed è lasciato annerito. Invece di figlio di Dio, diviene figlio del diavolo. Che cosa può fare al fine di acquisire nuovamente le cose dalle quali si allontanò? Che altro se non chiedere un mediatore e un amico di Dio, che ha il potere di riportarlo nella sua condizione precedente e riconciliarlo a Dio suo Padre? Colui che è unito a Cristo con la grazia diviene suo membro ed è da Lui adottato; se poi lo abbandona, è come il cane che “si rivolge al suo vomito” (2 Pt 2, 22), e si unisce ad una prostituta o ad un altro corpo, è condannato come i miscredenti poiché ha disonorato e bestemmiato Cristo stesso. Infatti, secondo il divino Apostolo, “voi siete corpo di Cristo, e sue membra, ciascuno in particolare” (1 Cor 12, 27). Pertanto, chi si unisce ad una prostituta rende le membra di Cristo membra di fornicazione (1 Cor 6, 15). Quindi, uno che ha fatto una cosa del genere ha fatto arrabbiare il suo Maestro e Dio e non può essere riconciliato con Dio se non attraverso la mediazione di un uomo che è santo, amico e servo di Cristo, astenendosi dal male.

6. Per questo motivo, dobbiamo prima di tutto fuggire dal peccato. Tuttavia, se accade che siamo trafitti dal dardo del peccato, non dobbiamo attardarci e permettere che il suo veleno c’invogli come il miele. Non dovremmo ripetere la stessa cosa come un orso che ne è stato attratto, rendendo maggiore la ferita. Ma, piuttosto, dobbiamo correre direttamente da un medico spirituale, purificando noi stessi del veleno del peccato con la confessione e sputando il veleno. Dovremmo rapidamente ricevere come antidoto l’epitimìa [la correzione] che lui ci offre per il nostro pentimento sempre compiendola con fede fervida e lottando nel timore di Dio. Per tutti coloro che si sono privati delle ricchezze, si sono affidati a loro stessi e hanno dilapidato i loro beni paterni alle prostitute e ai pubblicani, e la cui coscienza ora è così appesantita dal peccato da non poter più guardare verso l’alto, privi di coraggio davanti a Dio, chiedono naturalmente un uomo di Dio che possa ricevere il loro debito. E poi, per mezzo suo, possano avvicinarsi a Dio, qualcosa d’impossibile da farsi senza pentimento sincero e fatiche continue se si vuole ristabilire la propria relazione con Dio. Infatti, non si è mai sentito parlare o è riportato nelle Scritture divinamente ispirate che si possa prendere su sé i peccati di un altro e difenderlo se prima il peccatore non ha intrapreso fatiche corrispondenti ai peccati e ha mostrato adeguati frutti del suo pentimento. Poiché, come disse la voce del Precursore della Parola: “Fate dunque veri frutti di conversione e non v’illudete col dire: Abbiamo Abramo per padre” (Mt 3, 8). Infatti il Signore stesso disse a coloro che così stupidamente vivono: “In verità, vi dico: anche se si levano in piedi tra loro Mosè e Daniele per salvare i loro figli e le loro figlie, non saranno salvati” (vedi LXX Ez 14, 14; 16, 20). Che dobbiamo dunque fare, noi che desideriamo pentirci, e in che modo, per avere i nostri debiti rimessi ed essere sollevati dalla nostra caduta? Ascoltate, se Dio vuole, quanto posso spiegare a ciascuno di voi.

7. Se desideri cercare un mediatore, un medico e un buon consigliere, lascia che ti mostri come un buon consigliere applicherà il suo consiglio sui modi di pentimento; lascia che ti mostri come un medico darà la medicina appropriata per ogni ferita; lascia che ti mostri come sarà un mediatore attraverso la preghiera; e come avrà comunicazione con Dio e starà dinnanzi a Lui faccia a faccia in tuo favore per ottenere la misericordia del Divino. Non devi cercare un alleato o un consigliere in un adulatore o in uno schiavo del ventre perché non vanno contro la tua volontà e non ti insegnano queste cose gradite a Dio, ma quelle che desideri accettare e, quindi, rimani ancora una volta nemico di Dio e non riconciliato con Lui. Non accettare né un medico inesperto che t’immergerà nella disperazione con la sua grande brutalità e con improprie incisioni e cauteri, né chi, nella sua eccessiva simpatia, ti lascerà malato mentre penserai di essere guarito e, peggio di tutto, quanto non ci si dovrebbe aspettare!, ti consegnerà all’eterno inferno. Perciò quest’inferno si realizza quando, in questa vita, la malattia dell’anima, non è guarita ma continua fino a quando non muore con noi. “Infatti, non tutti i discendenti d’Israele sono Israele” (Rm 9, 6), ma solo coloro col nome che conoscono pure il potere del nome e sono intelletti che vedono Dio. Allo stesso modo, non tutti coloro che sono chiamati cristiani sono veramente cristiani. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore”, Cristo dice, “entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E aggiunge che “molti mi diranno in quel giorno [...] nel tuo nome abbiamo cacciato demoni [...] allora dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7, 21-23).

8. Questo è il motivo per cui, fratelli miei, tutti noi dobbiamo stare attenti — i mediatori, da un lato e i peccatori dall’altra che desiderano essere riconciliati con Dio — affinché né i mediatori facciano scendere l’ira sulle loro teste invece di aver ricompense, né i peccatori che desiderano essere riconciliati con Dio abbiano un nemico, un assassino e un cattivo consigliere, invece di un vero e proprio mediatore. Per costoro c’è il re che proferirà parole terribili: “Chi ti ha reso capo e giudice sul mio popolo?” (cfr. Es 2, 14)? E ancora: “Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Mt 7, 5). Infatti il legno è una passione o un desiderio che scurisce l’occhio dell’anima. E inoltre: “Medico, cura te stesso” (Lc 4, 23) e ancora: “Ma al peccatore Dio ha detto: Perché tu racconti i miei decreti e ripeti la mia alleanza con la tua bocca? Tu hai odiato la disciplina e hai gettato le mie parole dietro alle spalle” (Sl 49, 16)? E Paolo dice: “Chi sei tu che giudichi un servo altrui? Stia in piedi o cada ciò riguarda il suo padrone” (Rm 14, 4).

9. Pertanto, a causa di tutte queste cose, fratelli e padri miei, mi vengono i brividi e tremo. Chiedo a tutti voi, anche con questa esortazione a voi da me rivolta, di non essere superficiali su questi misteri divini, venerati da tutti, non giocate con cose che non sono giochi, e non agite contro la vostra anima a causa di vanagloria, ambizione, o per lucro o per insensibilità. Infatti, è possibile assumere perfino uno strano ragionamento solo per il fatto di essere chiamati “padri” o “maestri”. Vi prego, poiché stiamo semplicemente insegnando con l’esempio terreno, cerchiamo di non usurpare spudoratamente un onore uguale agli apostoli. Poiché se qualcuno spudoratamente osa assumere la mansione del re terreno e viene sorpreso, assieme ai suoi ministri e seguaci, a espletare in segreto o in modo manifesto ciò che al re competeva, costui è sottoposto a estremi castighi allo scopo d’intimorire gli altri [eventuali usurpatori], e [quindi] tutti lo deridono in quanto egli è stolto e dissennato. Che sorte, allora, avranno coloro che si appropriano indegnamente dell’ufficio di apostoli?

10. Né dovresti desiderare di divenire mediatore per altri prima di essere stato riempito di Spirito santo, di conoscere, ed essere riconciliato con il Re di tutto e percepirlo nella tua anima. Perciò nessuno che conosca il re terreno può essere un mediatore davanti a lui al posto di altri. Estremamente pochi sono in grado di fare ciò, poiché hanno acquisito tale familiarità davanti a lui e per le loro virtù, il loro sudore e le fatiche effuse per lui. Costoro non hanno bisogno di un mediatore tra lui e loro stessi, ma conversano bocca a bocca con il re. Pertanto, padri e fratelli, non dovremo mantenere lo stesso ordine davanti a Dio? Non onoriamo il Re celeste almeno altrettanto come il re terreno? Abbiamo intenzione di usurpare e concederci di sedere alla sua destra e alla sua sinistra prima ancora di chiederlo e riceverlo? Che incoscienza! Che cosa vergognosa si è impadronita di noi? Perché, anche se siamo chiamati a rendere conto di nient’altro che questo, ossia di essere sprezzanti, saremo caduti in disgrazia e ci verrà negato un posto di dignità e saremo gettati nel fuoco eterno. Ora, ciò che è stato detto è sufficiente per esortare coloro che vogliono essere attenti a loro stessi. Per questi motivi, le nostre parole hanno divagato un po’ oltre il soggetto a nostra portata. Ma ora, figlio mio, dovremo affrontare quanto mi hai chiesto di conoscere.

11. Tu troverai che la confessione ad un monaco, che non ha ordini sacri, è stata praticata in tutto il mondo sin da quando i monaci esistono poiché la veste del pentimento e la vita monastica sono state date da Dio in sua eredità, come si riporta negli scritti divinamente ispirati dei Padri. E, se si guarda a loro, troverai che quello che stiamo dicendo è vero. Prima di ciò, come successori dei santi apostoli, solo i vescovi hanno ricevuto il potere di legare e sciogliere. Ma, con il passare del tempo, i vescovi si sono corrotti, e questo tremendo incarico è stato trasmesso ai sacerdoti che avevano una vita irreprensibile ed erano degni della grazia. Più tardi, pure i sacerdoti, associandosi ai vescovi, sono divenuti proprio come il resto della popolazione. E molti di loro, proprio come ora, sono caduti nello spirito dell’illusione, del discorso vano e vuoto e si sono persi. Quindi, il potere di legare e sciogliere è stato trasferito ai prescelti, tra il popolo di Dio, vale a dire ai monaci. Non è che questo potere sia stato rimosso dai preti e dai vescovi, ma i sacerdoti e i vescovi si sono estraniati da tale grazia. “Infatti, ogni sommo sacerdote, preso tra gli uomini, è costituito in favore degli uomini nelle cose che riguardano Dio”, come dice l’apostolo Paolo, aggiungendo “e deve offrire sacrificio per i peccati, come per il popolo, anche per se stesso” (Ebr 5, 1, 3).

12. Ma andiamo avanti e iniziamo questo commento dall’inizio per vedere quando, come e a chi è stato dato questo potere di servizio sacerdotale di legare e sciogliere. L’ordine con cui hai formulato la domanda renderà chiara la risposta non solo a te ma a tutti gli altri uomini. Quando il nostro Signore e Salvatore dice all’uomo con la mano inaridita: “I tuoi peccati ti sono perdonati”, udito questo, gli ebrei esclamarono: “Quest’uomo dice bestemmie. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” (cfr. Mt 9, 2-3; Mc 2, 7; Lc 5, 21). Infatti il perdono [ex officio] dei peccati non è mai stato dato da profeti o sacerdoti o da uno dei patriarchi di quei tempi. Questo è il motivo per cui gli scribi hanno respinto le parole di Cristo come una nuova dottrina o predicazione bizzarra. Ecco perché il Signore non li biasima per ciò, ma insegna loro qualcosa che non sapevano, mostrandosi come garante della remissione dei peccati come Dio, non come uomo. Egli aggiunge loro: “Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mt 9, 6), dicendo all’uomo con la mano inaridita: “Stendi la tua mano. Ed egli la stese e tornò sana come l’altra” (Mt 12, 13). Così mediante un miracolo visibile ne ha mostrato un altro maggiore e invisibile. Successe lo stesso con Zaccheo, lo stesso con Pietro che lo rinnegò tre volte, lo stesso con il paralitico che Egli guarì e poi trovatolo disse: “Ecco, sei guarito. Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (Gv 5, 14). Dicendo questo, mostrò che l’uomo si era ammalato a causa del peccato e, quando è stato guarito dalla malattia, ha ricevuto la remissione dei suoi peccati, senza digiuno, senza rendere il suo letto come una dura terra, attraverso la sua conversione, la sua fede senza esitazioni, la cesura dal male e attraverso il vero pentimento e molte lacrime, come la prostituta e come Pietro che pianse amaramente.
Da tale principio deriva il grande dono che appartiene a Dio solo, e che solo lui possiede. Quando stava per ascendere al cielo, al suo posto, ha poi lasciato tale dono ai suoi discepoli. Com’è possibile che ha dato quest’autorità e potere a loro? Vediamo a chi, a quanti e quando. Ai suoi scelti undici discepoli, quando passò attraverso le porte chiuse ed essi erano raccolti all’interno. Entrò, stette in mezzo e soffiò su di loro dicendo: “Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati, sono loro rimessi; a chi li ritenete, sono ritenuti” (Gv 20, 22-23). Non diede loro alcun comando per quanto riguarda l’epitimìa poiché sarebbe stata loro insegnata dallo Spirito santo (cfr. Gv 14, 26).

13. Così, come abbiamo detto, [tale dono] dai santi apostoli passò a coloro che succedettero loro. Costoro salirono sui loro troni, in modo che tra gli altri nessuno potesse nemmeno avere il coraggio di pensare a qualcosa di simile. E così i discepoli del Signore custodirono l’autorità di questo potere con grande cura. Ma, come abbiamo detto precedentemente, con il passare del tempo, i degni si mescolarono con gli indegni. E poiché gli indegni erano molti di più, hanno oscurato e corrotto i degni impegnandoli in dispute su chi avesse maggiore autorità e finta virtù per presiedere sugli altri. E poiché coloro che sedevano sui troni degli apostoli si mostrarono carnali, amanti del piacere e appassionati agli onori, si sono inclinati verso le eresie. La grazia divina ha abbandonato uomini come questi e il potere è stato loro rimosso. È per tale motivo che tutte le qualità che dovrebbero possedere gli operatori del servizio sacerdotale sono poste in disparte e l’unica cosa loro richiesta per essere ordinati è quella d’essere ortodossi. Così, a coloro che dovevano essere ordinati fu chiesto solo questo. Tuttavia, temo che in realtà non dovrebbero nemmeno chiedere ciò. Infatti, uno non è ortodosso solo perché non porta una nuova dottrina nella Chiesa di Dio, ma perché ha una vita che è coerente con il corretto insegnamento. Diversi patriarchi e metropoliti, hanno a volte cercato questo tipo di candidato, entrambi con insuccesso, o hanno preferito gli indegni a costui. E dall’indegno ebbero bisogno solo di una dichiarazione firmata sul Simbolo di fede. Gli hanno chiesto solo ciò: che non sia un fanatico per il bene, né che lotti contro qualcosa di male. Presumibilmente, stavano collaborando alla pace della Chiesa in questo modo, ma questo modo è peggiore di qualsiasi odio ed è causa di un gran disordine. Per tale motivo i sacerdoti si sono corrotti e sono divenuti come il popolo. Per cui tra loro non ci fu nessuno che fosse il sale di cui e su cui ha parlato il Signore e che, utilizzando rimproveri, potesse bloccare e controllare la dispersione della vita. Al contrario, si sono accordati e hanno coperto le cattive passioni l’uno all’altro, divenendo peggio del popolo. E il popolo, a sua volta, è divenuto peggio di loro. In effetti, alcune delle persone hanno dimostrato d’essere meglio dei preti perché, in mezzo al buio totale dei sacerdoti, sono apparsi come un carbone acceso. Infatti, secondo le parole del Signore, se nella loro vita i preti si fossero disposti a “risplendere come il sole” (cfr. Mt 5, 16; 13, 43), la brace non sarebbe stata vista brillare e sarebbe apparsa oscura rispetto alla luce più potente. Ma poiché tra la gente del posto è rimasta solo la forma e l’aspetto esterno del sacerdozio, il dono dello Spirito santo è stato trasferito ai monaci. Fu riconosciuto dai segni che lo dimostrano che i monaci, con le loro opere, vivevano la vita degli apostoli. Anche lì, poi, il diavolo ha nuovamente eseguito il suo lavoro: vedendo che i monaci sono apparsi nel mondo come alcuni nuovi discepoli di Cristo e splendevano per la vita e i miracoli, ha recato tra loro, mescolando di mezzo a loro, dei falsi fratelli, suoi contenitori. Costoro lentamente aumentarono, come si vede, e i monaci si corruppero divenendo monaci completamente amonastici. E quando videro che erano inutili, non divennero meglio di coloro che avevano lo schema monastico o di quanti erano chiamati sacerdoti o di coloro che avevano assunto l’onore episcopale ossia i patriarchi, i metropoliti e i vescovi.

14. Pertanto, il potere di rimettere i peccati non è dato da Dio né a coloro che hanno lo schema monastico né a coloro che sono ordinati nei ranghi del sacerdozio, né a quelli onorati dall’ufficio dell’episcopato, voglio dire ai patriarchi e metropoliti e vescovi, solo a causa della loro ordinazione e della loro sede. Il cielo non lo voglia! È loro autorizzata solo l’esecuzione dei servizi e, per la maggior parte di loro ho il sospetto che non sia autorizzata neppure quella in modo che, essendo paglia, non sia bruciata. Invece, il potere di rimettere i peccati è dato solo a coloro tra preti e vescovi e monaci che appartengono al rango dei discepoli di Cristo, a causa della purezza.

15. Come, allora, saranno quelli di cui abbiamo parlato, per sapere se sono tra tali discepoli, e in che modo saranno gli altri che cercano di riconoscerli precisamente dopo di loro? A tal fine, il Signore ci ha dato un insegnamento dicendo: “E questi segni accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni; parleranno lingue nuove” (si riferisce alla dottrina divina e benefica della Parola); “cammineranno sui serpenti e se bevono qualsiasi cosa mortale, non farà loro del male” (Mc 16, 17). E anche, “le mie pecore ascoltano la mia voce” (Gv 10, 27), e “li riconoscerete dai loro frutti” (Mt 7, 16). Quali frutti? Paolo enumera molti frutti e dice: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, temperanza” (Gal 5, 22), e quelli che li accompagnano sono “compassione, fraterno amore, carità”, con le conseguenze di questi. Con loro ci sono “la parola di saggezza, parola di conoscenza, il dono della guarigione” e molto altro. “Ma tutte queste cose le opera quell’uno e medesimo Spirito, donando a ciascuno come vuole” (1 Cor 12, 8-11). Quindi quelli che sono divenuti i partecipanti a tali doni – in tutto o in parte in base a ciò che è loro vantaggioso – sono contati nel coro degli apostoli. Annoverati pure tra loro ci sono quelli che oggi diventano come loro. Ed è per questo che essi sono la luce del mondo, come dice Cristo stesso: Nessun uomo che accende una candela la pone sotto un tavolo o sotto il letto, ma su un candeliere in modo che darà luce a tutti quelli che sono nella casa (cfr. Mt 5, 14, 15). Essi sono noti non solo per questo, ma per la condotta della loro vita. Perciò in questo modo coloro che cercano tali uomini, così come gli uomini stessi, possono sapere se, a somiglianza del Signore nostro Gesù Cristo, essi non siano causa di vergogna e, come lui, abbiano, al contrario, accettato con più grande gloria e umiltà e obbedienza priva d’ipocrisia i loro padri e guide e, inoltre, le loro guide spirituali; se, con tutta la loro anima, abbiano amato il disonore, gli insulti, il ridicolo e i rimproveri; se abbiano considerato chi loro porta tali cose come causa di grandi doni e abbiano pregato in lacrime per loro con tutta la loro anima; e se abbiano sputato alla gloria di questo mondo e considerato letame le delizie di questo stesso mondo.
Ma devo dire tanto e dire l’ovvio, allungando il mio commento? Se un uomo trova che ha raggiunto ogni virtù sentita dalla lettura della Sacra Scrittura e si è esercitato in ogni opera buona e conosce il grado del suo avanzamento e del cambiamento, per quanto riguarda ciascuna di esse, sta salendo alle vette della gloria divina, facendolo quindi partecipare a Dio e ai suoi doni; e coloro che lo vedono chiaramente, come quelli con una visione più debole, lo riconosceranno. Coloro che sono come lui possono dire a tutti con coraggio: “Noi siamo ambasciatori per Cristo, come se Dio supplicasse attraverso di noi [...] siate riconciliati con Dio” (2 Cor 5, 20). E tutti coloro che sono come costoro, hanno mantenuto i comandamenti di Dio fino alla morte. Hanno venduto i loro beni e distribuito i soldi ai poveri. Hanno seguito Cristo e subìto le tentazioni. Hanno perso la vita in questo mondo, per amore di Dio e la ritrovano nella vita eterna. E quando hanno ritrovato la loro vita, sono stati visti in una luce noetica. E poi in questa luce hanno visto la luce inaccessibile, [che è] Dio stesso, com’è scritto: “Nella tua luce vedremo la luce” (Sl 35, 10). Ma com’è possibile per uno trovare la vita che ha già? Fa’ molta attenzione! La vita di ogni uomo è una dramma che abbiamo perso (cfr. Lc 15, 8-10). Per cui non è Dio, ma è ognuno di noi ad essersi immerso nelle tenebre del peccato. Ma Cristo, la luce vera, viene e incontra faccia a faccia coloro che lo cercano garantendo che possono vederlo mediante i mezzi che Lui solo conosce. Questo è ciò che significa per uno trovare la sua vita: vedere Dio e in quella luce divenire più alto di tutti nella creazione visibile e avere Dio come suo pastore e maestro dal quale, se lo desidera, imparerà a legare e a sciogliere. E dopo averlo appreso con precisione, adora Dio che gli ha dato tale dono e lo trasmetterà a tutti coloro che ne hanno bisogno.

16. Vidi che a questi uomini, figlio mio, è dato <il potere> di legare e sciogliere da Dio Padre e dal nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito santo. Essi sono tra i suoi figli adottivi e servitori sacri. Io ero discepolo di un tale padre, che non ha avuto l’ordinazione da uomini ma mi ha fatto discepolo per la mano di Dio, ossia per lo Spirito santo. Egli mi ha ordinato di ricevere l’ordinazione dagli uomini, poiché era bene osservare la forma consueta in quanto, dai miei primi giorni, lo Spirito santo mi stava muovendo verso di essa con un grande desiderio.



17. Pertanto, miei fratelli e padri, preghiamo principalmente di divenire come loro, in grado di parlare agli altri della libertà dalle passioni e di sentire i loro pensieri. Cerchiamo un padre spirituale. Infatti, ricerchiamo accuratamente per trovare tali uomini, veri discepoli di Cristo. E supplichiamo Dio con doglie del cuore e molte lacrime per molti giorni per aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo conoscere se e dove un tale uomo è da ricercarsi tra la nostra malvagia generazione. E, dopo averlo trovato, preghiamo affinché possiamo ricevere la remissione dei peccati per suo mezzo, obbedendo ai suoi comandi ed esortazioni con tutta l’anima, proprio come lui obbedisce ai comandamenti di Cristo, ed è divenuto partecipante alla sua grazia e ai doni da Lui ricevuti; il potere di legare e sciogliere i peccati è dato dal fuoco dello Spirito santo, al quale sia ogni gloria, onore, e adorazione assieme al Padre e al Figlio unigenito nei secoli. Amìn.

© Chiaranz Pietro