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domenica 10 maggio 2015

Dispotismo clericale e tradizione ecclesiale

Innocenzo III, il papa dal cui petto sgorgava
la fonte di ogni diritto sulla terra.
Με πολλή αγάπη και παρρησία.


Non è per un banale gusto di gossip che ho riportato i dolorosi fatti nel post precedente ma per mostrare un fenomeno che, sinceramente, mi sta allarmando: l’aumento del dispotismo clericale nella Chiesa.

Per poterci bene intendere, devo spiegare cosa intendo per “dispotismo” clericale: è quella situazione in cui un superiore ecclesiastico decide su tutto non ascoltando nessuno e volendo avere sempre ragione. È stato giustamente rilevato che proprio queste sono le caratteristiche dello “psicorigido”, di colui, cioè, che sia nella vita professionale che in quella personale pone grossi problemi agli altri, poiché manifesta una sostanziale incapacità di relazionarsi. Un interessante articolo francese mostra come lo “psicorigido” provenga da un’infanzia e un’adolescenza nella quale nessuno lo ha mai contraddetto ed è stato sempre portato sul palmo della mano dai propri genitori. Proviene, in buona sostanza, da una mancanza di reale educazione la quale ha contribuito a gonfiare all’estremo il suo egocentrismo [1].

Un vescovo, proprio perché “bocca e maestro” della Chiesa locale, non può essere un egocentrico, incapace d’interagire positivamente con il gregge affidatogli. Se è uno “psicorigido” la storia non lo ricorderà come un buon vescovo, anche se fosse teoricamente animato dalle migliori intenzioni.

Parlando del ruolo di un vescovo non possiamo prescindere dal tipo di Chiesa nella quale egli offre il suo servizio. Generalmente esistono due modelli di Chiesa:

a) quello occidentale-latino e
b) quello orientale.

Non consideriamo le comunità ecclesiali uscite dalla Riforma luterana per l’ovvio motivo che non sempre vi figura la presenza di un vescovo e che la struttura ecclesiologica di tali realtà ha subìto molte variazioni, talora assai radicali, rispetto alle prime due.

a) È usuale credere che il tipo occidentale (cattolico) di Chiesa come lo conosciamo oggi sia sempre esistito. È un errore. Già in altri post ho accennato che l’assetto odierno, per quanto non radicalmente nuovo rispetto a quello antico, si sia imposto poco per volta e, soprattutto, con l’emergere e il predominare dei chierici a partire dall’ultima parte del Medioevo. Il predominio del monachesimo, che contraddistingueva la Chiesa latina fino a tutto il basso medioevo, non prevedeva una forte presenza clericale. Esso sottolineava maggiormente gli aspetti carismatico-spirituali del Cristianesimo, al punto che un semplice monaco o addirittura una abbadessa divenivano rierimento per molti. Al contrario, il predominio dei chierici nella Chiesa, dalla fine del medioevo, anche grazie al vuoto lasciato loro dal mondo monastico in crisi, ha cominciato a introdurre lentamente delle novità. 

Tanto il modello clericale si appoggia sulla contemplazione e sulla fuga dal mondo, tanto il modello clericale si appoggia sull’uso della ratio e su una presenza sempre più attiva nel mondo. Il passaggio ha inevitabilmente portato l’accento dal carisma spirituale ad una visione istituzionale, regolamentata da precise leggi canoniche.

Vorrei precisare che sia monaci sia chierici, in una visione equilibrata, sono entrambi espressione della Chiesa, per cui non dovrebbe esistere un contrasto o un’opposizione tra contemplazione e ragione, tra fuga mundi e presenza mondana (fintanto che questa rimane discreta e non sia trionfalistico-imperiale), tra spiritualità e legge canonica. Sta di fatto, però, che non raramente si è giunti a sostituire la prospettiva clericale a quella monastica.

Lo vediamo chiaramente oggi in cui, se si evoca la spiritualità, molti non ne capiscono la ragione e la interpretano come un disimpegno verso il mondo nel quale è, al contrario, necessaria una forte presenza.

Nel modello occidentale, in cui trionfa la presenza clericale, è molto facile che l’autorità divenga autoritarismo. Questo è senz’altro segnale di una rottura di equilibri nella Chiesa e ciò avviene quando la spiritualità si è oscurata e la legge canonica sembra l’unica cosa concreta con la quale si spiega e si regge la Chiesa stessa. Passare dall’indifferenza all’incomprensione per terminare nellaperta opposizione al monachesimo è, qui, assai logico. Una Chiesa nella quale il monachesimo langue o è seriamente alterato è, dunque, una Chiesa clericalista!

In una realtà sifatta l’imposizione dell’autorità è un bisogno, l’unico vero bisogno per poter governare la Chiesa. È qualcosa che non si può non constatare. Ecco perché, in piena epoca romantica è stato necessario ribadire l’autorità ecclesiastica nel concilio vaticano I contro il pensiero agnostico-liberale anticristiano. I cristiani in questo contesto, non vedono il predominio dell’autorità come un eccesso o uno squilibrio ma come l’unico modo con cui la Chiesa può proteggere la verità rivelata. Essi credono che, praticamente, i chierici sono automaticamente  (o magicamente?) assistiti e garantiti dalla “grazia di stato” per cui non resta che obbedire loro.

Personalmente noto che in questo caso siamo dinnanzi ad un pericoloso piano inclinato dove l’autorità può facilmente scivolare in autoritarismo. 

Un buon vescovo farà certamente appello al suo buon senso e al suo cuore per non scivolare ma, se vuole fare il contrario, ha campo libero ed ha, addirittura, delle garanzie che ne proteggono l’azione: il diritto ecclesiastico occidentale è dalla sua parte. Infatti, nel consiglio presbiterale, il vescovo può benissimo decidere contro tutti e addirittura a svantaggio della Chiesa, motivandolo positivamente e facendo leva semplicemente sulla sua autorità. L’autorità, in questo caso, corre il terribile rischio di divenire fine se stessa!

b) In Oriente c’è una storia completamente diversa (con eccezioni in qualche patriarcato). Qui la Chiesa tradizionalmente è intesa come “chiesa di popolo”, non tanto come “chiesa di chierici”. Questa visione tradizionale nasce dal fatto che il popolo è ritenuto custode delle tradizioni ecclesiastiche [2]. Il tesoro della Chiesa, espresso nelle sue tradizioni, non è qualcosa che riguarda solo il clero ma tocca (o dovrebbe toccare) realmente tutti. I monaci, di solito, sono quei “laici impegnati” che sensibilizzano il popolo in tal senso.

Vorrei osservare che questa sensibilità orientale non era peculiare solo alla Chiesa bizantina ma, anticamente, la si riscontrava in ogni Chiesa, pure in quella occidentale quando il ruolo monastico era predominante.

In questa prospettiva il vescovo che cura la sua Chiesa, senza venir meno alla sua fondamentale funzione di capo e bocca della Chiesa locale, si deve necessariamente confrontare con i suoi fedeli che, con lui, custodiscono la tradizione e, ognuno a suo modo e nella sua forma, la trasmettono. Se non c’è questa sinergia di forze, si è rotto un equilibrio e viene meno la tradizione ecclesiale, intesa come trasmissione di un ethos dogmatico e spirituale allo stesso tempo.

L’Occidente ha avuto la sua storia, inevitabile e travagliata, nella quale, volenti o nolenti, i chierici hanno assunto la quasi totalità del comando nella Chiesa. Questo non ha necessariamente creato situazioni negative ma, essendosi imposto un nuovo assetto, in non pochi casi lo ha potuto realizzare più facilmente: una Chiesa di fatto di soli chierici e con un popolo passivo scivola nel clericalismo, ossia in una malattia mortale, in cui tende a predominare il formalismo e si azzera progressivamente la spiritualità. In tutta la storia religiosa occidentale si nota, soprattutto negli ultimi secoli, un continuo braccio di ferro tra chi altera la Chiesa con il clericalismo e chi cerca di riequilibrarla con una visione religiosa più sana. I primi, però, tendono sempre più a prevalere, a ricavare uno spazio sempre maggiore per loro stessi: “privilegia sunt amplianda, odiosa restringenda!”, si dice a Roma, e questo non può non estendersi al potere dei chierici sulla totalità della Chiesa.

L’Oriente ha proseguito l’assetto antico, con accentuazioni differenti da luogo a luogo ma con una base comune: i chierici hanno un posto importante nella Chiesa ma non possono far finta che i laici non esistono e non possono sentirsi “padroni” della Chiesa. Ad esempio, un vescovo di non ottima fama può non venire accolto in cattedrale, quindi può non prendere possesso ufficiale della diocesi poiché il popolo può impedirglielo. A quel punto, non gli resta che ritirarsi. Certamente anche questa procedura può prestarsi ad abusi e avere i suoi lati negativi (uno tra tutti la reale difficoltà a “mettere ordine” tra contrastanti voci). Il pregio è che, ordinariamente, tende ad impedire il dispotismo clericale, ossia il comando arbitrario di uno su tutti.

Ecco perché, laddove il dispotismo cerca d’imporsi, suona infinitamente più antitradizionale e stonato rispetto all’Occidente.

Chi cerca di proporre in buona fede una condizione che può introdurlo, a volte cade in situazioni quasi patetiche e tragicomiche.
Ad esempio, ricordo un corso accademico tenuto da un docente greco. Costui tentava di porre sullo stesso piano i pronunciamenti cristologico-dogmatici di un concilio ecumenico e quelli relativi all’ecumenicità della Chiesa di Costantinopoli, come se le due cose avessero la medesima importanza.

Il 28° canone del Concilio ecumenico di Calcedonia (451) stabilisce i privilegi della Chiesa di Costantinopoli, dal momento che questa risiede nella nuova capitale imperiale [3]. I privilegi che porteranno il suo vescovo a fregiarsi con il titolo di “ecumenico”, ossia universale, sono legati ad un contesto storico che, con il tempo, è divenuto tradizione ecclesiastica.

Se la capitale imperiale fosse stata a Milano e vi fosse rimasta, questo ruolo lo avrebbe senz’altro avuto il vescovo di tale città, poiché allora l’ordine ecclesiastico si modellava sull’ordine amministrativo dell’impero romano [4].

Questa tradizione ecclesiastica, dunque, non si radica assolutamente in un dogma o nella rivelazione come, invece, si è imposto in Occidente con la figura del papa. Il fatto di volerlo quasi rivendicare e di agire come se lo fosse è totalmente antitradizionale, in Oriente, e ha qualcosa di disperato e di patetico allo stesso tempo [5]; è come essere davanti alla possibilità di unestrema rovina per cui, questo modo puramente umano, sembra l’unica via per poter conservare ancora qualcosa. Fatte le dovute distinzioni è come vedere limperatore Giovanni VIII Paleologo tentare il tutto per tutto pur di salvare il pochissimo che restava dell'impero bizantino. È un atteggiamento che atterrisce e stringe il cuore!

Conosco e ho visitato più volte il Fanar, la sede patriarcale costantinopolitana, posso dire di avere amore per quest’antica reliquia dell’impero bizantino ma, oggettivamente, la deriva autoritaristica che sembra sempre più caratterizzarlo (e tende ad influenzare le realtà ad esso legate) mi preoccupa molto poiché non è affatto un segno positivo. Ovviamente queste mie impressioni non sono puramente personali perché sono confortate anche da fatti precisi e puntuali. 

Sarebbe totalmente errato interpretare queste mie analisi come un atteggiamento nemico, poiché sono oggettive ed evidentissime a molti che hanno la libertà e la possibilità di vederlo [6]. Vedere qualcosa che pare sotto molti aspetti essere il sintomo d
una malattia grave, significa, forse, odiare chi si pensa esserne affetto? No affatto e, anzi, è sicuro segno del contrario! Invece dire che tutto va bene e che non è mai stato così splendido, potrebbe essere il peggior servizio da farsi in una Chiesa con problematicità. Le parole servono per descrivere la realtà, non per contraffarla anche perché la realtà stessa o prima o poi s’impone all’evidenza di tutti e i vuoti non potranno mai essere riempiti dal caos delle parole.

L’autoritarismo nella Chiesa è dunque sempre qualcosa di negativo, che accada in Occidente o in Oriente. Oltre a polarizzare l’attenzione dei fedeli solo su un ruolo istituzionale, di fatto rende quest’ultimo l’unica cosa importante. Chi si appoggia sull’autoritarismo finisce per essere sordo alle voci nella Chiesa, finendo per non capire più la famosa raccomandazione di san Benedetto all’abate nella sua Regula, secondo la quale lo Spirito potrebbe parlare anche all’ultimo del monastero, ragion per cui il superiore deve porvi attenzione.

Con l’autoritarismo si realizza perfettamente quello che un chierico cattolico tradizionalista in un empito di sincerità mi confessò: “La Chiesa è solo il papa e i cardinali e nessun altro!”

Ma se, almeno teoricamente, il Cattolicesimo non accetta queste affermazioni, questa grottesca caricatura di Chiesa, quanto più grottesco diviene il mondo ortodosso se, nonostante tutto, alcuni sono tentati di seguire la via dell’autoritarismo!

Questo, poi, non tiene affatto conto della realtà odierna in cui se le persone si avvicinano alla Chiesa cercano generalmente un rapporto autentico e diretto con Dio, non una sottomissione passiva ad una gerarchia che, nell’autoritarismo, tende a perdere il contatto con Dio ed è sempre più a digiuno di spiritualità [7].

Non è dunque un caso che la Regula di san Benedetto nella scelta dell’abate, ossia dell’autorità nel monastero, vuole un candidato con santità di vita e cultura spirituale, anche se fosse l’ultimo della comunità. Oggi in Occidente per quanto riguarda i vescovi non è quasi più così e questa “moda” inizia ad essere seguita anche nell’Oriente cristiano. Chi sceglie i vescovi non si pone tanto la domanda È una santa persona?, quanto “Sarà di vantaggio alla struttura?. Di conseguenza sceglie.

I danni che si generano sono immensi, tali da fare affondare il Cristianesimo stesso, nella generale spensieratezza narcisistica di molti suoi chierici che manco si rendono conto della posta in gioco. I gradi clericali sono visti, da costoro, come medaglie al petto, non come la pesante responsabilità di mantenere, nella Chiesa, la profezia e la libertà dello Spirito, il suo autentico ethos evangelico e patristico.


Note

[1] Alexandra Durand, Comment vivre en harmonie avec un psychorigide?, in Téléseptjours, 24-30 mars 2012, p 1. L’articolo è in linea in questo link.

[2] Vedi, ad esempio, la lettera inviata dai patriarchi ortodossi in risposta alla lettera agli orientali di papa Pio IX (1848): “Il protettore della religione è lo stesso corpo della Chiesa, persino il popolo stesso, che desidera che la loro religiosa adorazione sia sempre immutata e della stessa specie che quella dei loro padri”. Per una visione del carteggio tra Pio IX e i patriarchi orientali vedi qui.

[3] Cfr. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’istituto per le scienze religiose, EDB, Bologna 1991, p. 99.

[4] Lo stesso Concilio Ecumenico ricorda il ruolo importante del papa di Roma nella Chiesa poiché Roma era l’antica capitale imperiale. Se, al tempo in cui si redisse tale concilio fosse stato chiaro a tutti e universalmente accettato che il potere papale era universale in quanto appoggiato su san Pietro, non vedo perché il Concilio non avrebbe dovuto registralo. Invece lo omette, segno che quest’interpretazione è senz’altro posteriore al Concilio stesso. Storicamente parlando, non dobbiamo dunque proiettare nel passato dati che si sono manifestati chiaramente solo posteriormente.

[5] Nella stessa logica si pone chi definisce il patriarca ecumenico "vertice dell'Ortodossia", affermazione totalmente falsa! Nella ecclesiologia orientale non esiste alcun "vertice" umano poiché esso è solo Cristo. Il patriarca ecumenico è un coordinatore, un ecclesiastico eminente che, in casi particolari e solo su invito, può entrare negli affari di un altro patriarcato per cercare di risolverli. L'idea di "vertice" comporta automaticamente l'idea di un verticismo ecclesiastico piramidale, cosa assolutamente antitradizionale in Oriente nel quale, al contrario, si ha da sempre insistito sull'aspetto comunionale e sulla parità dei vescovi tra loro. È molto strano e paradossale che chi critica il papato come "impedimento" all'unione delle Chiese, poi ne imiti alcune caratteristiche. Si può rinvenire questa definizione totalmente errata qui e qui. Tuttavia, dal momento che chi propone questi concetti non lo fa a caso, si può supporre che provengano direttamente dall'alto e dal patriarca stesso.

[6] Rimasi assai stupito quando scoprii che, se un metropolita del patriarcato costantinopolitano vuole ordinare al sacerdozio un candidato, deve attendere il benestare del santo Sinodo fanariota. Una cosa del genere non avviene neppure nel mondo cattolico, che pure ha un forte senso di accentramento delle istituzioni! D’altronde un esame di queste cose, facendone emergere l’atipicità rispetto al resto del mondo ortodosso, lo si nota anche in un articolo scritto in greco Ετσι θα εκλεγεί ο επόμενος Αρχιεπίσκοπος Αμερικής e visibile qui. Riporto la traduzione italiana di un suo piccolo passo che riguarda la facoltà totale di disporre da parte del Patriarca (in questo caso nell’eleggere l’arcivescovo greco-ortodosso d’America):

“Ecco come sarà eletto il prossimo arcivescovo d’America […]. Mostro la tesi secondo la quale l’elezione dell’arcivescovo d’America costituisce un privilegio del Patriarcato Ecumenico per la semplicissima ragione che l’Arcivescovado è una delle sue province ecclesiastiche. Se il trono arcivescovile diviene vacante, il Patriarca Ecumenico convoca il santo Sinodo del Fanar, costituito da 12 vescovi di cui lui è il presidente, che elegge l’arcivescovo d’America. Per quanti conoscono la situazione mi limito semplicemente a un accenno e per coloro che non la conoscono informo: sarà eletto colui che proporrà e porrà innanzi il patriarca Bartolomeo. Le cose sono chiare! Quanto si dice sulla libera scelta, sulla concertazione tra i membri del Sinodo e sull’effusione dello Spirito santo, non sono che espressioni formali, vuote di contenuto, poiché è noto a tutti che al Fanar il dogma in vigore è ’un solo uomo ha tutto il potere’. Questo significa che il Primate come si dice abitualmente, ossia il Patriarca fa quel che vuole, come vuole e quando lo vuole”.

Senza nulla togliere alla mia venerazione per questo antico centro storico cristiano, non posso non vedere, in questo suo attuale sistema, un rischio non remoto di autoritarismo e il pericolo di scadere in un sistema rigidamente autoreferenziale, totalmente isolato dalla vera realtà della Chiesa. Non serve essere profeti per immaginare che, a lungo andare, le conseguenze potrebbero essere mortali esattamente come in tutti i sistemi totalitaristi.

A questo punto, mi viene in mente una parte del Polychronion che si canta nella liturgia patriarcale del Fanar. In esso, oltre ad augurare i molti anni al Patriarca, lo si definisce “Signore e Padrone nostro. Ora, che lo si definisca Signore lo posso capire, dato che la liturgia cristiana è stata influenzata dalla prassi della corte imperiale (nonostante per san Paolo si dovrebbe chiamare “Signore uno solo: Gesù Cristo). Ma che si definisca il Patriarca “nostro Padrone, sinceramente mimpressiona e non positivamente poiché, nello stesso Vangelo, Cristo non chiama i suoi discepoli servi (altrimenti ne sarebbe il padrone) ma amici. Se in Oriente non ci fosse stata una forte tradizione monastica (che remava contro questi personalismi ecclesiastici) si sarebbe anche qui arrivati in tutto e per tutto ad una specie di “papa orientale. Non che nella storia non ci sia stato chi lo abbia tentato. Un nome significativo: il patriarca Giovanni XIV Kalekas (1334-1347) il quale iniziò ad attribuire a se stesso alcune prerogative imperiali, i sandali rossi, simbolo dell'imperatore, qualche tempo prima assunti dal papa stesso in Occidente.

[7] Ricordo con infinito affetto la figura di un chierico ortodosso il quale aveva un cuore talmente cristallino da fare affermazioni disarmanti con la semplicità di un bambino, rivelando una profondità sconcertante. Per certi versi costui mi sembrava un "pazzo di Cristo". Una volta davanti al suo vescovo osò dire: "Noi non lavoriamo per Cristo ma per il Patriarca". Fu ovviamente sgridato: non era opportuno che orecchie estranee lo sentissero! Tuttavia in questa splendida confessione si capisce come, in una visione clericalista, non si lavori più per Cristo ma per i fini di un gerarca ecclesiastico, con il pretesto di Cristo. Infatti non è assolutamente detto che lavorare per un papa, un vescovo e un patriarca significhi automaticamente lavorare per Cristo ! In un caso del genere, a lungo andare chi lo fa accumula un senso d'insoddisfazione e di frustrazione molto forte. Non è un caso che i peggiori anticlericali siano usciti da certe strutture ecclesiastiche (cosa che riguarda ogni confessione cristiana di tipo clericalista).



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